Il mio nome è Jean-Jacques, ma quando viaggio ho adottato il soprannome Jef, in riferimento allo scrittore-giornalista Joseph Kessel i cui libri hanno alimentato la mia immaginazione durante l’adolescenza. E siccome il nomadismo è un vero e proprio stile di vita per me, ho deciso che sarò Jef Le Saltimbanque. Sono cresciuto viaggiando perché mio padre era un espatriato, in parte in Turchia e in parte in Portogallo. Durante la mia vita, ho praticato a turno varie passioni: sci, immersioni, immersioni sotterranee, mongolfiere e soprattutto l'equitazione. Nel 2003/2004, ho fatto il mio primo viaggio in moto di 16 mesi durante il quale ho girato l'Africa. Ho scritto un primo libro su questa avventura (La bandana blu, racconti di una promessa sotto lo pseudo Jean-Jacques Aneyota). Nel 2018, sono tornato in Asia per 16 mesi e ora sto preparando un giro del mondo senza limiti di tempo. Il mio modello è Hubert che ha viaggiato per gli ultimi 14 anni della sua vita. Oh sì... sto per compiere 60 anni.
Fuori il freddo sembra aver paralizzato la vita. La moto non parte, la batteria è fuori uso. L’ho smontata per riscaldarla in camera. Già ieri mattina mi aveva quasi lasciato a piedi nella campagna uzbeka. Tutto si era congelato, anche l'acqua nella mia borraccia. Miracolosamente, però, il motore si era messo in moto alla prima sollecitazione. Sapevo bene, tuttavia, che la batteria non sarebbe stata in grado di fornire l'energia necessaria per un secondo tentativo. L'inverno sta arrivando. I turisti stanno disertando questo paese dal clima austero da diversi mesi. E io sto per fare lo stesso, dirigendomi a sud verso l'Iran attraverso il Turkmenistan.
Perché mi trovo ancora in questa regione? Sono partito da diversi mesi ormai e dovrei essere già lontano. Ma io sono un viaggiatore lento. Coltivo la lentezza. Ho impiegato 6 mesi per coprire una distanza che altri motociclisti coprono in sole 2 o 3 settimane. Del resto, non abbiamo lo stesso ritmo: loro sono in ferie, io sono in viaggio.
Eppure percorriamo le stesse strade, affrontiamo le stesse difficoltà, condividiamo gli stessi guasti, le stesse paure e le stesse gioie, o quasi. Viaggiano, certo, ma non sono "in viaggio". Credo che nella mia lingua, il francese, manchi un termine per descrivere i viaggi su lunghe distanze. Alcuni li chiamano “spedizioni”. Penso che questo termine sia un po’ forte. Per fare un esempio, uno come Jean-Louis Étienne sì che fa spedizioni. Ma quando si parte per diversi mesi o addirittura anni, si viaggia semplicemente. E per me, il viaggio è lento. Chi prende l’aereo e la macchina imbroglia: è troppo facile, troppo veloce. Quindi sì, un vero viaggio si fa a piedi, in bicicletta, in moto o a cavallo. Viaggiare è come strisciare. Strisciando si ha la lentezza necessaria per apprezzare le distanze e la diversità di questo mondo. La lentezza ci permette di incrociare occhi e sorrisi. La lentezza è una garanzia di intensità e di incontri.
Tuttavia, questa lentezza deve tener conto di due imperativi: il primo è la durata del visto; il secondo è il clima. E questa volta, devo ammettere, l'ho sottovalutato. Non ho potuto viaggiare attraverso il Tagikistan, che era già troppo nevoso. E mi ritrovo a essere l'unico straniero, o quasi - ho appena incrociato un senatore durante un viaggio ufficiale - in un paese dove pochi parlano inglese. La maggior parte delle persone qui parla il russo. E ammetto di sentire, oltre alla morsa del freddo, una certa stanchezza indotta dalla solitudine, io che amo tanto gli scambi e le discussioni. Così sono solo e un po' demoralizzato in questa stanza, in attesa che la batteria si riscaldi.
Dopo un’ora, il calore è sufficiente da ridare una parvenza di energia alla batteria. Posso partire. Attraversare la frontiera è una formalità semplice, che richiede però molto tempo. Tuttavia, ottenere il visto di transito, di solo 5 giorni di durata, è stato un vero e proprio percorso ad ostacoli. Questo tipo di visto, infatti, viene emesso a sprazzi e secondo una logica casuale del tutto irrazionale. Ho persino letto che una famiglia li aveva ottenuti tutti tranne una persona fra di loro, il che ha reso impossibile a tutti di attraversare il confine.
Alla dogana nessuno parla inglese. Si parla solo il turkmeno o il russo. Tuttavia, uno degli assistenti mi consegna un pezzo di carta mentre tuona "Ten days". Io rispondo: "No, five ", ma l'uomo insiste: “NO! TEN!” Prendo il documento senza cercare di capire. Poco più avanti, un altro addetto mi fa pagare varie tasse. Una in particolare cattura la mia attenzione: è una fattura di noleggio GPS. In effetti, ero stato avvertito. Le autorità turkmene installano un tracker sui veicoli stranieri in transito per assicurarsi che non si allontanino dal percorso predefinito. È un visto di transito e non si suppone che tu sia un turista. Tuttavia, lascio la dogana senza GPS. Anche qui non mi sforzo di capire, tanto sono sollevato dal fatto che posso allontanarmi dalla dogana. Ce l’ho fatta! Alleluia!
Mi fermo nella prima città per cambiare alcuni dollari nella moneta locale. Devo mangiare, ma non vedo nessun ristorante in questa città dall'architettura sovietica. Chiedo ad alcuni passanti se c'è un ristorante in zona. Stranamente, molti di loro sembrano avere paura di parlare con me. Avevo già notato questo tipo di comportamento negli anni '70, nei paesi dietro la cortina di ferro. Alcuni chiamano il Turkmenistan “la Corea del Nord dell'Asia centrale”. Inizio a capire perché. Un uomo coraggioso, tuttavia, mi fa cenno di seguirlo e mi guida verso un edificio senza finestre con porte d'acciaio. Un ristorante, quello? Su sua insistenza, decido comunque di provare ad aprire la porta e lì, a sorpresa, scopro una grande stanza con luce soffusa, tavoli e sedie.
Qualche minuto dopo, mentre sto mangiando un piatto ignoto, un uomo si siede al mio tavolo. Sembra che voglia dirmi qualcosa di importante. Ma io non parlo né turkmeno né russo. E lui non parla inglese. Disperato, mi dice che devo aspettare e che qualcuno verrà. Incuriosito, accetto. Comunque, non ho fretta. Spesso in questo tipo di situazioni preferisco sparire per evitare problemi. Ma l'uomo sembra davvero preoccupato. Mi ha incuriosito.
Qualche istante dopo, una coppia appare sulla porta. Riconosco immediatamente la donna: è la persona che mi ha fatto pagare le varie tasse alla dogana. Il suo compagno parla inglese e spiega. La donna ha sbagliato: mi ha fatto pagare il localizzatore GPS, ma nessuno me l'ha dato. Vuole restituirmi i soldi che sono stati pagati ingiustamente e riavere quel documento. Quello che mi colpisce è l'atteggiamento della donna. Sembra davvero preoccupata, come se le conseguenze di questo semplice errore potessero essere drammatiche. Avverto il suo sollievo quando le consegno il documento. Mi rimetto in cammino poco dopo. Questa paura che sento in molte delle persone con cui ho parlato dal mio arrivo mi mette in allarme. Non sono più in un paese di turisti, questo è sicuro. E dovrò fare attenzione.
Avevo previsto di fermarmi a Darvaza, a poco più di 250 km di distanza. Ma la strada è solo una lunga pista di fango e i miei pneumatici poco tassellati non sono proprio adatti a questo tipo di terreno. Arrivo quando è già buio, dopo una sola caduta. Il posto è facile da trovare. I fuochi della Porta dell’Inferno illuminano il cielo e il sito si vede da molto lontano. Avevo previsto di accamparmi, ma il freddo mi ha presto convinto ad accettare l'offerta di due giovani di dormire al caldo nella loro yurta.
Dopo una zuppa calda, decido di andare sul bordo del cratere. Il luogo è famoso e noto a tutti i viaggiatori che passano attraverso questo paese. È una vera curiosità. All'inizio degli anni '70, i geologi russi causarono un crollo mentre perforavano alla ricerca di un giacimento. Il buco risultante, largo 70 m e profondo più di 20 m, ha rilasciato grandi quantità di metano nell'atmosfera. Temendo un disastro ambientale, i geologi decisero di dargli fuoco. Pensavano che tutto il gas si sarebbe consumato in poche settimane. Invece, brucia ininterrottamente da 50 anni, in barba all’ecologia. Di giorno non c'è molto da vedere, solo un'enorme cavità in mezzo al deserto da cui fuoriesce aria calda dall’odore di metano bruciato. Ma di notte, lo spettacolo è magnifico e l'abisso illumina il cielo. Rimango qui due notti. Sia per godere di questo spettacolo unico, ma anche perché la carica della mia batteria si è dimostrata ancora una volta troppo bassa per avviare la moto. Così la smonto di nuovo per scaldarla vicino alla piccola stufa a legna nella yurta.
Arrivo ad Ashgabat la sera del terzo giorno dei cinque concessi dal mio visto. Decido di alloggiare in uno dei palazzi della città di cui mi aveva parlato un amico. Tutto marmo bianco, uno dei più lussuosi che lui avesse mai visto. Essendo un alto dirigente della catena di alberghi Sofitel, decido di dargli retta. E faccio bene. L'hotel dispone di ben 14 suite da 300 m2 ciascuna. Bassorilievi raffiguranti la vita tradizionale turkmena decorano l'entrata monumentale. Tuttavia, non vedo nessun cliente. Senza la presenza del personale numeroso, mi sembrerebbe vuoto.
Il giorno dopo, a colazione, incontro i pochi clienti presenti: sono solo francesi che lavorano per una nota impresa edile. Sono loro ad aver costruito questo hotel e la maggior parte degli edifici di questa città faraonica, tutti in marmo bianco e rispondenti ai più alti standard sismici del mondo. Qui tutto è bianco. Anche le auto, a parte quelle dei funzionari, che sono nere. Mi dicono che si può essere multati se si guida un veicolo sporco.
Tornando alla mia stanza, intravedo dalla porta aperta una donna delle pulizie appoggiata alla scopa. Sembra che stia allertando qualcuno da un angolo della stanza dove ho messo in carica tutta la mia attrezzatura: videocamera, macchina fotografica, telefono e computer. Compare un uomo che mi saluta rapidamente, passandomi davanti. Prima che possa parlargli, è già scomparso. Una cosa mi sembra certa: non appartiene al personale dell'hotel. Giovane, capelli corti, atletico, mi ricorda più un militare. Qualche ora più tardi, mentre parlo del fatto con uno dei francesi che ho incontrato a colazione, lui conferma la mia intuizione: servizi segreti. Sono venuti a controllare chi ero e l'attrezzatura che stavo usando.
Nonostante questo, o forse proprio per questo, decido di prendermi del tempo per visitare questa città. È impressionante. Tutta di marmo bianco, viali con 6-12 corsie, arredi urbani all'avanguardia. Non ho mai visto una tale esibizione di opulenza. Ma la cosa più impressionante è la popolazione. O meglio, la quasi totale assenza di popolazione. Incrocio poche macchine e gli unici pedoni sono spesso poliziotti a cui non sembra interessare la ripugnante sporcizia della mia moto. Mentre percorro in moto il viale dei ministeri, lungo 2 km e largo 12 corsie - così chiamato perché è fiancheggiato da edifici, ognuno dei quali ospita l'amministrazione di un singolo ministero - decido di fermarmi a scattare qualche foto.
Scruto i dintorni per assicurarmi che nessun poliziotto mi veda. È infatti vietato, come in molti paesi, fotografare gli edifici ufficiali. In generale, rispetto questo tipo di divieto. Ma qui non posso resistere. Questi edifici sono troppo incredibili. Il Ministero della Cultura, per esempio, è come un libro aperto. E il posto è deserto. L'opportunità è troppo invitante. La tentazione è troppo forte. Mi fermo e tiro fuori la macchina fotografica nascosta nella borsa del serbatoio. Ho appena il tempo di scattare una foto quando sento una voce dietro di me. Mi giro di scatto e scopro una trentina di soldati armati. Ma da dove diavolo sono sbucati? Non sono ostili, anzi, sono piuttosto educati. Ma mi dicono chiaramente che devo andarmene. Non è permesso fermarsi su questo viale.
Obbedisco senza fare domande e mi allontano. Domani dovrebbe essere il mio ultimo giorno in territorio turkmeno. Ma c'è una cosa che da cavallerizzo voglio assolutamente vedere prima di partire: il famoso cavallo turkmeno. L'Akhal-Teke, il cavallo dorato. Tanto più che so che il presidente della Repubblica Turkmena, un appassionato, ha costruito delle scuderie che immagino faraoniche come la città. Si dice anche che ci siano statue di cavalli in oro massiccio. Ma due cose mi impensieriscono. La prima è che mi porterà fuori dal mio percorso autorizzato. La seconda è che supererò la scadenza del visto. Non ci penso troppo su. Del resto, ho il famoso documento dei "10 days!” Dopo aver riflettuto qualche istante, decido di cimentarmi in questa impresa e di cercare le famose scuderie. L'unico problema è che, anche se so dove sono, non ho la loro posizione esatta. Al diavolo, vedremo.
Purtroppo, pochi chilometri dopo Ashgabat, una macchina della polizia mi sorpassa. Attraverso il finestrino vedo la faccia incredula dell'ufficiale. Mi fanno segno di fermarmi. Ancora una volta, la barriera linguistica ci impedisce di capirci veramente. Ma non ho molti dubbi sulla loro domanda: che cosa ci faccio qui? Io rispondo semplicemente: "Akhal-Teke". Il volto austero del poliziotto si illumina con un ampio sorriso. Ho pronunciato la parola magica. L’apriti sesamo di Ali Babà e dei suoi 40 ladroni! Con gioia, il poliziotto mi indica la direzione.
Così riparto. Qualche chilometro più avanti, giro a sinistra, verso quella che penso sia la direzione giusta. La strada si snoda attraverso le montagne. È deserta, tranne qualche donna che spazza la strada qua e là. Sì, la strada! Con la scopa! Penso al mito di Sisifo. Per diversi chilometri, percorro una sorta di zona urbana con tutte le comodità: parchi giochi per bambini, parchi acquatici con scivoli, ma che mi sembrano totalmente deserti. Riesco a malapena a vedere due auto. Dopo un bel po’, devo arrendermi all’evidenza di essermi perso. E, cosa ancora più fastidiosa, non devo essere troppo lontano dalla zona di confine con l'Iran, quindi potenzialmente in una zona sensibile. Inoltre, negli ultimi chilometri ho incontrato diversi piccoli gruppi di soldati, tutti armati. Ma mi hanno lasciato passare senza fermarmi. Così decido di chiedere loro delle indicazioni. Ancora una volta, la parola magica fa il miracolo. L'Akhal-Teke sembra essere un vero orgoglio nazionale, e a ragione. Questo cavallo poco conosciuto è probabilmente l'unico che può competere con il purosangue arabo in termini di resistenza. Un vero e proprio “bevitore del vento” abituato a sostenere corse infinite nelle steppe. Ma la sera arriva senza che io riesca a localizzare le famose scuderie. Trovo rifugio in un angolo della foresta lontano da occhi indiscreti.
L’indomani, quando mi alzo, sono di ottimo umore. Oggi è il mio sesto giorno in Turkmenistan. E sono convinto che finalmente vedrò questi famosi cavalli. Dopo aver bevuto il mio caffè, riparto. La mattina, mi ci vogliono al massimo 30 minuti per levare le tende: smontare la tenda, mettere via il materasso e il piumone, e caricare tutto sulla moto.
Questa volta, trovo le scuderie senza alcuna difficoltà. Ma, ahimè, non c'è nessuno. Solo un cancello monumentale, ovviamente chiuso. Ho fatto tutta questa strada per niente? Rimango fermo per un po’ a cercare di capire come entrare, quando arriva una macchina guidata da un uomo che si parcheggia accanto a me. Vado a parlargli. Ancora una volta la barriera linguistica ci impedisce di comunicare bene, ma riesco a fargli capire che vorrei vedere l'Akhal-Teke e gli mostro alcune foto di un cavallo lusitano che ho sul mio telefono. Questo suscita il suo interesse e mi chiede: “trainer?” Rispondo in modo affermativo. Mi confida contento che anche lui è un addestratore. Si ferma un attimo a riflettere e poi chiama qualcuno al cellulare. Sembra che voglia chiedere il permesso di farmi entrare. Ahimè, il permesso non viene concesso e l’uomo torna da me dispiaciuto.
Continuiamo a cercare di comunicare. Poi improvvisamente mi fa cenno di seguirlo. Aggiriamo la zona. Lui in macchina, io in moto, arriviamo a quello che sembra essere un ingresso di servizio. Così passo il pomeriggio a visitare questa enorme tenuta, le scuderie, l’ippodromo e i cavalli. Con mio grande rammarico, non ho il piacere di vederli durante l’allenamento perché, per un tiro del calendario, sono arrivato in un giorno festivo.
Ce ne andiamo nel tardo pomeriggio. La sera, dormo sul lato della strada, nascosto in un fosso, con la moto nascosta sotto un telone non lontano dal confine, e arrivo al posto di frontiera il 7° giorno. E qui inizia il dramma. Ho fatto un “over-stay”, ho superato la scadenza del mio visto. Cerco di mostrare il mio documento dei "10 days", ma non è d’aiuto: non posso uscire. Devo tornare ad Ashgabat per ottenere il permesso di lasciare il paese dall'amministrazione competente. Ma non so quale né il suo indirizzo preciso!
Così torno verso la capitale con disappunto. Non senza difficoltà, riesco a scoprire quale amministrazione devo contattare, ma quando arrivo è troppo tardi: gli uffici sono chiusi. Devo tornare il giorno dopo.
Lascio la città e dormo di nuovo nascosto non lontano dalla strada, dietro alcuni arbusti. Il giorno dopo, preoccupato, mi presento davanti agli edifici dell'immigrazione. Mi sento subito come una patata bollente passata di mano in mano. Nessuno sembra essere disposto ad affrontare il problema. Dopo diversi tentativi infruttuosi, un uomo mi accoglie nel suo ufficio. Mostro di nuovo il mio documento dei "10 days". Mi spiega che il permesso di 10 giorni è per... la moto. Divertito, rispondo che quindi io devo andarmene, ma che la moto può rimanere e raggiungermi qualche giorno dopo. Che assurdità! L'uomo è affabile e sembra disposto ad aiutarmi. Si allontana per qualche istante e torna dispiaciuto. Oggi non può fare nulla, devo tornare domani. Quindi devo tornare a dormire nel mio fosso. Per tirarmi su, decido di concedermi prima un bel pasto al ristorante.
L’indomani, quando arrivo nell’ufficio, l'uomo che mi aveva accolto il giorno prima mi porta dal suo capo. C'è un’interprete. Mi dice che quello che ho fatto è grave e che la multa è di 200 dollari al giorno. Protesto con calma, citando ancora una volta il documento su cui sono segnati i 10 giorni, facendo notare che la suddetta carta è solo in turkmeno e russo, e che alla dogana nessuno parlava inglese. La mia argomentazione sembra funzionare e sento che sono infastiditi. Alla fine, l’interprete mi spiega che posso ottenere un permesso di uscita senza pagare la multa, a condizione che scriva una lettera spiegando la situazione e chiedendo la grazia alle autorità. In tal caso, però, mi sarà vietato soggiornare in Turkmenistan. Accetto senza discussioni.
Una volta fatto, torno allo sportello dove si rilasciano i visti. L'uomo mi chiede quanto tempo voglio rimanere. Mi trattengo dal ridere e gli dico che altri 3 giorni saranno sufficienti. All'uscita, l'inserviente, che comincia a conoscermi, mi fa il saluto militare con un gran sorriso.
L’indomani arrivo di nuovo alla dogana, ma stavolta senza problemi. Davanti a me, alcuni chilometri di terra di nessuno e poi la dogana iraniana dove, temo, mi aspetta un altro problema altrettanto spinoso: da un po' di tempo, girano voci secondo cui le autorità iraniane si rifiutano di far entrare nel paese le moto superiori a 250 cc...