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    Quando i piloti erano esploratori nel continente nero

    Di DemoneRosso | 27 gennaio 2021 | 1 min

    Contenuti dell'articolo

    Da Parigi parte una corsa in fuoristrada tra mito e realtà, attraversa il deserto africano e arriva a Dakar
    La ricerca tecnologica porta nel mondo dei rally soluzioni tecniche sempre più avanzate
    Vengono mutuate dai Gran Premi tecnologie e materiali per adeguarsi alle crescenti velocità
    La ricerca della performance diventa una corsa al comfort e all’ergonomia
    Nascono capi in grado di fronteggiare situazioni climatiche avverse, dal caldo torrido alla neve
    Il know-how maturato alla Dakar si riversa a cascata su tutta la produzione in serie

    Nel 1978 Thierry Sabine, pilota automobilistico francese, creò una corsa mitica. La Parigi – Dakar, una maratona attraverso l’Europa e l’Africa, con partenza ai piedi della torre Eiffel e traguardo nella capitale del Senegal, sulla spiaggia del Lago Rosa. Il Gran Premio delle gare di fuoristrada. Al via uomini leggendari e moto potentissime, evolute al punto di sfiorare i 200 chilometri all’ora su piste di terra e sabbia. Jean Claude Olivier e il prototipo Yamaha a quattro cilindri, ma soprattutto Neveu, Picco, Lalay, Orioli, De Petri e Terruzzi, le Africa Twin ufficiali e le Cagiva con motore Ducati.

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    La ricerca tecnologica 

    L’esigenza di proteggersi arrivò anche qui e Dainese fu in corsa per vent’anni. L’abbigliamento da pista contaminò quello da enduro, dando vita a capi nati appositamente per i rally raid, sempre più tecnologici e mirati. Si partì con giubbotti misti in stoffa e pelle, per poi passare a filati moderni e resistenti e alle protezioni rigide su gomiti e spalle. Ben presto arrivò il paraschiena integrato, ormai essenziale in ogni disciplina a due ruote. Alcuni esemplari di giacche realizzate per Edi Orioli, quattro volte vincitore tra il 1988 e il 1996, impiegarono materiali estremamente ricercati come fibre composite aramidiche e di carbonio a protezione delle spalle.

    Nella seconda metà degli anni 90 l’impensabile: la gobba sulla schiena, come quella delle tute da Gran Premio, apparve su alcune giacche prodotte per Orioli e pochi altri, in un limitatissimo numero di pezzi. Anche qui la gobba assunse inizialmente una funzione protettiva, per coprire le vertebre cervicali laddove il paraschiena non può arrivare. In secondo luogo, voleva migliorare il coefficiente di penetrazione aerodinamica, in una disciplina dove superare i 180 chilometri l’ora è all’ordine del giorno. La velocità pura qui è un fattore di non poco conto, potenziale discriminante tra vittoria e secondo posto.

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    Aumentare il comfort per ridurre i rischi 

    Dainese differenziò giacche e pantaloni in base alle condizioni meteorologiche che verosimilmente i piloti avrebbero incontrato lungo il percorso. Arrivò a progettare capi riscaldati per affrontare le fasi d’apertura della corsa, che partiva da Parigi nel pieno dell’inverno e si trovava, appena arrivati in Africa, ad attraversare le alte catene montuose del Marocco. Alcune tappe erano disputate con temperature vicine o sotto lo zero. Si correva in balia di condizioni atmosferiche che non risparmiavano ghiaccio e neve e che aggiungevano una variabile potenzialmente determinante come la resistenza al freddo del singolo pilota e del suo equipaggiamento.

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    Le giacche Touring Dainese

    Comfort e protezione in tutte le condizioni, dal commuting urbano ai lunghi viaggi nelle condizioni più estreme.

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    Fu soprattutto qui che Lino Dainese mise a frutto la sua inventiva, per consentire ai piloti di esprimersi al meglio in ambienti estremi. Furono ideate speciali giacche impermeabili in Gore-Tex intrecciate di resistenze elettriche, sotto guanti e persino solette degli stivali riscaldate. Nulla era lasciato al caso: se la giacca termica veniva indossata sopra quella da gara, lo stesso non si può dire dei sotto guanti, che dovevano garantire la massima sensibilità sui comandi della moto. La soluzione fu quella di posizionare le resistenze solamente sul dorso della mano ed evitare quelle sul palmo, che avrebbero compromesso irrimediabilmente il comfort e la qualità del contatto con le manopole. L’intero sistema era collegato ad una batteria tenuta in tasca. La quantità di calore trasmessa ai filamenti era regolabile tramite un semplice potenziometro, graduato con una scala d’intensità da 0 a 10.

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    Per i rally più caldi, come il Rally dei Faraoni, si faceva invece ricorso a capi leggerissimi e aerati. Erano realizzati con tessuti innovativi e inserti in rete nelle zone meno esposte a potenziali abrasioni, come il retro della giacca, l’interno braccia e la zona posteriore delle ginocchia, sui pantaloni. Tutto per massimizzare la performance e ridurre al minimo i rischi.

     

    Dal deserto alla produzione in serie 

    La partecipazione alla Parigi Dakar del periodo pionieristico ha permesso a Dainese di lavorare e sperimentare nuove tecnologie nel campo più estremo ed impegnativo. Il know-how acquisito in vent’anni d’Africa viene tuttora trasferito sui prodotti di serie, disponibili per tutti i motociclisti.

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