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    La genesi della Clinica Mobile e il suo contributo alla sicurezza nel motociclismo

    Di DemoneRosso | 29 gennaio 2021 | 1 min

    «Era il 22 aprile del 1957 e avevo 16 anni. L’autodromo di Imola era stato inaugurato appena quattro anni prima, tra i fondatori dell’impianto c’era mio padre, Checco Costa. Essendo figlio di uno dei fautori di questa nuova realtà molte porte mi erano aperte, a Imola. Ero abituato a scorrazzare nei box, incontravo i piloti e tutto questo era all’ordine del giorno.  

    Ma per quella Coppa d’Oro del ’57, la tentazione di vivere la corsa in una zona più emozionante fu irresistibile. Mi recai alle Acque Minerali, dove mio padre non mi avrebbe lasciato andare. Il mio cognome e il mio viso di ragazzino sorridente erano dei lasciapassare davvero efficaci, il supervisore mi lasciò entrare 

    Da dietro un albero assistetti al passaggio dei piloti più forti dell’epoca, Liberati, Masetti, Duke. Proprio Geoff Duke, britannico, mi cadde davanti. Non potevo rimanere fermo a guardare. Mi precipitai in pista ad aiutarlo, lo trascinai in salvo e poi feci lo stesso con la sua moto. Non ero più un trasgressore, mi sentivo una specie di eroe che aveva aiutato il suo beniamino.» 

     

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    Parla il Dottor Costa, il medico più famoso della storia del motociclismo. Un episodio, questo di Imola, che segna la persona nel profondo, ma, ancor di più, cambia le sorti dello sport.   

    «Il giorno successivo mio padre apprese la notizia dai giornali e non andò come avrei sperato, non del tutto, almeno. Mi aspettavo di ricevere un elogio, invece fui criticato molto aspramente per aver trasgredito alle regole, al punto che mi misi a piangere. Tuttavia aggiunse: questo, Claudio, è quello che farai per tutta la vita.» 

     

    Una profezia. Il giovane Claudio Costa consegue la laurea in medicina dieci anni più tardi e poco dopo inizia a lavorare come medico di pista nella sua Imola. Ben presto si rende conto che la gestione della sicurezza nei circuiti, così com'è strutturata, non può funzionare  

    «La consuetudine, fino ad allora, era quella di caricare i piloti caduti in ambulanza e portarli all’ospedale più vicino. Ma così, molte anime perivano durante la disperata corsa. Io volli stravolgere questo modo d’agire. Era il soccorso che doveva andare dai piloti, non il contrario.» 

     

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    Claudio Costa è un rivoluzionario, di quelli con le idee chiare e i piedi ben piantati per terra. Anni più tardi, il suo nuovo concetto di soccorso in pista viene adottato da tutti i circuiti del mondo.  

    «Dotammo l’autodromo di tutto il necessario, ma fino a che continuai ad operare a Imola non sentii il bisogno di spingermi oltre. Ricordo con piacere le parole del grande Barry Sheene, che disse: cercate di non cadere mai, ma se proprio dovete, fatelo a Imola che c’è Costa che vi salva!”.  

    Più tardi iniziai a portare i miei servigi in giro per tutti i circuiti del mondiale. Le strutture in cui mi trovavo a lavorare, però, erano bel lontane da quelle che mi ero costruito su misura a Imola. Cera ancora una totale mancanza di organizzazione.» 

     

    È questo il momento in cui scocca la scintilla nella mente di Claudio. Una clinica mobile, un ambiente organizzato, ma capace di spostarsi e di seguire tutte le gare. Ecco quello che serve.  

    «Per mettere in atto l’idea serviva parecchio denaro. Mi venne in aiuto Gino Amisano, fondatore di AGV. Lo conoscevo bene perché era legato a mio padre da profonda amicizia. Assieme, avevano dato vita a quello spettacolo che fu la 200 miglia di Imola, una gara che portava in pista il meglio del meglio. Amisano diede il suo prezioso, anzi, fondamentale contributo economico. Aveva subito compreso quello di cui avevo bisogno: una clinica con la rianimazione e gli anestesisti, per stabilizzare la situazione dei piloti prima di portarli in ospedale.» 

     

     

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    20 anni esatti dopo il profetico episodio di Imola, la Clinica Mobile AGV del Dottor Costa debutta. 1 maggio 1977, Gran Premio d’Austria a Salisburgo.  

    «Fu un battesimo del fuoco. Già al primo appuntamento mi trovai a fronteggiare una situazione disastrosa. Durante la gara della 350 Franco Uncini cadde e coinvolse altre moto, tra cui quelle di Patrick Fernandez e Johnny CecottoA loro tre salvammo la vita.» 

     

    Sono solo i primi, di una lista lunga centinaia di nomi. Da questo momento in avanti Costa inizia a espandere la sua ideale giurisdizione.   

    «Il lavoro della Clinica Mobile andò anche in direzione opposta. Noi eravamo lì per assistere chi ne avesse bisogno, ma prevenire è meglio che curare. Fu grande il lavoro fatto assieme ai maggiori produttori di abbigliamento e caschi. 

    AGV si dimostrò non solo uno sponsor, ma un vero partner. Anche Dainese si dimostrò aperta nei nostri confronti. Sia Gino Amisano che Lino Dainese ebbero la lungimiranza di vedere nella Clinica Mobile una biblioteca, un archivio inestimabile di informazioni che potevano essere cruciali per lo sviluppo di protezioni migliori.» 

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    Un esempio? Il guanto. All'inizio degli anni 90 ancora non si vedevano grandi passi avanti nella protezione delle mani, e i mignoli dei piloti la pagavano cara. 

    «Il mignolo è la parte più esposta della mano, la prima che tocca terra e quella che più facilmente rimane incastrata sotto la moto. Con i guanti che c’erano una volta gli infortuni gravi erano frequenti e curare una parte del corpo così piccola è davvero difficilissimo.  

    Con Dainese lavorammo ad un guanto che, per prima cosa, non si scucisse strisciando contro l’asfalto. In secondo luogo, concentrammo proprio sul mignolo i nostri sforzi, in quanto le altre dita non erano particolarmente esposte. Inserimmo in questo piccolo spazio più protezione possibile, andando addirittura ad annegare una rete metallica anti taglio tra pelle e fodera interna.» 

     

    Ma Costa è uno che vede ancora più in là. È uno che con le sue soluzioni anticipa i problemi. Cosa si p fare per diminuire il numero degli infortuni? Semplice, diminuire il numero delle cadute. Ma far sì che i piloti smettano di cadere sembra impossibile…  

    «Capii che la protezione da sola non era sufficiente. Un protettore estremamente efficace è inutile se è scomodo o ingombrante. Se vestissimo i piloti con delle armature da cavalieri forse sarebbero al sicuro, ma non riuscirebbero a guidare. 

    Le protezioni, ancor prima di proteggere, devono garantire la libertà di movimento. Solo mettendo a loro agio i piloti potevamo sperare, in qualche modo, di aumentare davvero la sicurezza in pista.» 

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    Una delle parti del corpo più stressate durante la guida, chiedetelo a qualsiasi pilota, sono gli avambracci. Violente accelerazioni, frenate, uso della frizione, quando ancora si usava. Tutti movimenti essenziali, che mettono a dura prova la resistenza del pilota. 

    «All’inizio le maniche delle tute erano realizzate interamente in pelle. Un materiale resistente, ma poco flessibile. Assieme a Dainese, capimmo che l’interno braccia era una zona tipicamente poco esposta durante le cadute, e decidemmo di provare a inserire inserti in tessuto elastico. Questo nuovo materiale lasciava molta più libertà alla circolazione del sangue, al muscolo arrivava più ossigeno e le sue funzionalità non erano più compromesse.» 

     

    Al Dottor Costa si deve ancor di più. È lui a dare, a inizio anni 2000, un importante contributo allo sviluppo di D-air®, il primo airbag elettronico per il motociclismo. 

    «Ricordo che insistetti molto su un punto in particolare. L’airbag doveva attivarsi prima della caduta, non dopo! 

    In un certo senso l’airbag è un po’ un sogno che si avvera. È una protezione impercettibile, fino al momento in cui serve davvero. E la libertà di movimento è la prima e più infallibile protezione.» 

     

     

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