Classe '76, dal 2001 tester collaudatore per la rivista Motociclismo. Ho provato di tutto nella mia vita, dalle MotoGP allo speedway, girando i più bei circuiti, da Phillip Island a Sepang, da Laguna Seca a Portimao. Amo le due ruote in tutte le loro declinazioni, dalle sportive al fuoristrada, perché ognuna nella mia vita ha saputo regalarmi emozioni. La gara più bella che ho corso da pilota è certamente la Pikes Peak in Colorado nel 2008, quando ancora c’era la terra battuta. Realizzo foto e video per i Dainese Expedition Masters, dalla Sardegna all’Islanda, dal Tibet al Sudamerica. Il viaggio più bello? Il Ladakh, sui passi più alti dell’Himalaya. Il più freddo? Tibet, fino al campo base dell’Everest a 5.700 m in inverno, con temperature da -10 a -23 °C. Quando la mia attività di fotografo e giornalista mi lascia del tempo libero, prendo l’enduro e vado per boschi, montagne o deserti. Vedere il mondo su due ruote continua ad essere l’emozione più grande.
Le Ande sono un richiamo troppo forte per non andarci almeno una volta. Il nostro viaggio, in moto, è pianificato per l’estate europea, in modo da trovare l’inverno Sudamericano: temperature da fresche a fredde, niente caldo torrido. Alla fine, se ti vesti come si deve è molto meglio così. Al freddo si può porre rimedio coprendosi, con il caldo è più difficile. La partenza è da Salta, nel nord dell’Argentina, la moto una BMW R1200GS noleggiata in loco. Occhio ai documenti del noleggio, è fondamentale che ci siano tutte le carte necessarie per poter passare le dogane, basta un niente per restare fermi al confine.
Sul mezzo di assistenza che ci segue posso mollare la borsa stagna con la mia roba, così alla fine nelle valigie rigide della moto devo solo mettere poche cose utili per la giornata: guanti pesanti, una felpa in più, tuta antipioggia, bottiglia d’acqua. Nel mio caso devo anche far stare parte dell’attrezzatura fotografica. Io sono fotografo e ho molte cose da portar sempre con me, ma chiunque abbia la passione per la fotografia avrà con sé diverso materiale. Il consiglio è di non mettere mai corpo macchina e obiettivi sulla moto, che siano valigie laterali o borsa da serbatoio poco cambia: in fuoristrada i colpi che riceve la moto sono immensamente più importanti rispetto a quelli che arrivano al pilota, per cui è quasi obbligatorio mettersi macchina e obiettivo in uno zaino o marsupio, mentre un piccolo treppiede può essere riposto nella valigia.
Da Salta ci dirigiamo a nord per raggiungere, sempre in terra argentina, la famosa Purmamarca, luogo incredibile che raggiungiamo nel tardo pomeriggio. Montagne di roccia rossa, che con il tramonto e, ancor di più, con il primo sole del mattino, si accende infuocata. È talmente forte che, guardando le foto, viene da togliere saturazione, perché con quel rosso tanto acceso sembrano finte, eppure sono realmente così! Sempre qui troviamo anche la montagna dei sette colori, con le stratificazioni di diverse tonalità, tra i primi esempi di una natura che nei prossimi giorni ci aspetta sempre più maestosa.
Superiamo il Paso de Jama con i suoi 4.200 metri di quota, per entrare in Cile, per poi proseguire qualche decina di chilometri sull’altopiano andino a 4.800 m, in un paesaggio lunare. Inizia a fare freddo, siamo poco sotto allo zero e tira anche un forte vento, poi inizia la discesa per San Pedro de Atacama a quota 3.159 m: una picchiata, su asfalto, che nel giro di una dozzina di km e meno di un quarto d’ora porta la temperatura oltre i 15 °C, assurdo!
San Pedro de Atacama è una piccola cittadina cilena posta sull’altopiano delle Ande ed è quella che mi ha lasciato il ricordo più bello di tutto il viaggio. È un crocevia importante per molti viaggiatori e mi è dispiaciuto molto non essere riuscito a trascorrerci almeno una giornata intera. Non ci sono grandi attrazioni turistiche, è una cittadina piccola, con molte strade sterrate, case basse, sviluppate solo sul piano terra, ma con una commistione di persone e culture splendida. Passeggiare per le vie di San Pedro, tra musicisti e artisti di vario genere, è un ricordo che mi porterò dentro.
Così come la prima tappa del giorno dopo, l’imperdibile Valle de La Luna, un’area desertica che è stata regolamentata e trasformata in parco nazionale. L’unicità delle formazioni rocciose, le grandi dune di sabbia… tutto fa supporre di essere realmente sulla Luna e apprezziamo che abbiano voluto tutelare questo luogo tanto magico. È possibile attraversarlo, in auto e in moto, pagando il ticket di ingresso e con la raccomandazione di limitare la velocità a 40 km/h, che scende a 20 km/h in certi tratti. È molto bassa, ma qui non ci vai certo per guidare in derapata: passeggi e ti godi lo spettacolo straordinario che queste montagne uniche al mondo ti offrono. Altro posto da mettere nel cuore.
Il viaggio prosegue, con parecchio asfalto, si attraversano piccoli villaggi, lagune, due diversi salar (uno lo abbiamo già attraversato in Argentina) e panorami che sono quelli che hai visto e sognato durante le prime Dakar sudamericane: laghi di un blu intenso, lama che brucano l’erbetta, un vulcano sullo sfondo, la strada sterrata che si disegna in questo paradiso terrestre. C’è poco da fare, è difficile non emozionarsi guidando in questa regione delle Ande.
Il Cile è forse il Paese in più rapido sviluppo tra quelli del Sudamerica e si percepisce anche semplicemente attraversandolo. Un elemento che già fa capire la buona salute di cui gode è la sua moneta. Il pesos cileno ha una quotazione fissa, ufficiale, molto diversa da quella del pesos argentino. Quest’ultimo, infatti, ha una quotazione ufficiale di circa 1:170 con il dollaro americano, vale a dire che per ogni USD ti danno 170 pesos, ma questo è il valore indicato dal governo, ovvero quello che ti fanno al cambio ufficiale, non quello della vita vera. C’è un’inflazione mostruosa che il governo si rifiuta di ufficializzare ma che di fatto ha portato ad abbassare di molto il valore del pesos (ce ne vogliono oltre 300 per avere 1 USD) e te ne accorgi ogni volta che paghi qualcosa in contanti piuttosto che usare la carta… c’è una differenza di due volte e mezza! In Cile questo non succede e sappiate che se vi sono avanzati dei pesos argentini li potete portare a casa e mettere in un quadretto, tanto nessuno ve li cambierà mai, né per acquisti in Cile sul confine, né tantomeno gli uffici di cambio.
Il nostro viaggio prosegue lungo la Ruta 21 verso Calama, siamo nella regione dell’Antofagasta, un continuo susseguirsi di deserti e vulcani, fino al confine con la Bolivia, dove arriviamo verso l’ora di pranzo. Ci armiamo di pazienza e iniziamo le pratiche doganali. Vai nel primo ufficio, poi ti mandano nel secondo, avanti 100 metri. Poi torna indietro a fare una fotocopia, poi vai in un terzo ufficio e ti dicono che manca un foglio. Però va bene anche senza, vai avanti al quarto ufficio, firma ancora e torna indietro. Fai una giravolta. Falla un’altra volta. Guarda in su. Guarda in giù. Poi chiudi gli occhi, fai un bel respiro, che siamo pur sempre oltre i 3.500 m, e stai calmo perché i border sudamericani sono spesso così. A dire il vero, le procedure dall’Argentina al Cile sono state veloci, mentre qui e per rientrare in Argentina dalla Bolivia è molto diverso. Sono molti rigidi con i controlli dei documenti per entrare in Bolivia e la tappa di oggi, da oltre 500 km, mal si sposa con queste lungaggini.
Una volta passato il confine sappiamo di avere meno di due ore di luce e non c’è nulla, ma proprio nulla, fino ad Uyuni. Sono 230 km per quasi 4 ore di guida, su strade scassate e fuoristrada, metà dei quali da fare al buio, con temperature che arrivano a -10/-15 °C… La scelta saggia è stata quella di preparare tutta la documentazione, ma di non attraversare il confine quel giorno, dormire al villaggio di confine di Ollague e metterci in marcia la mattina presto del giorno dopo. Mai decisione fu più azzeccata.
Siamo a 3.700 m di quota, cerchiamo un rifugio per la notte e troviamo un posticino gestito da una famigliola super cortese e felice di averci come ospiti. Ci mettiamo nelle camere e notiamo che il riscaldamento c’è e non c’è. Grandi coperte per stanotte, va così. Prima che faccia buio portiamo le moto nel retro della pensione, in un cortiletto tra due muri, per tenerle leggermente riparate dall’aria: qui di notte la temperatura scende molto e le avremmo ritrovate ghiacciate la mattina dopo.
La stellata pazzesca, la ferrovia con il vecchio treno merci, il vulcano attivo di Ollague lì a una manciata di chilometri, la storica Cappella di Sant’Antonio con le sue due croci bianche che si stagliano nel cielo scuro pieno di stelle. La voglia di ammirare questo luogo in una notte così e fare qualche fotografia è stata più forte del freddo pungente dei -13 °C che mi entravano nelle ossa…
La mattina si parte presto e la strada da Ollague a Uyuni è tanto bella quanto ricca di insidie, il che ci fa capire quanto sia stato saggio non farla con il buio e la stanchezza. Arriviamo a Uyuni e poi al Salar, luogo magico che sogniamo fin da quando ci passò per la prima volta la Dakar 10 anni fa. Facciamo una prima puntatina all’interno del Salar con il sole del pomeriggio e con il tramonto, per poi tornarci la mattina seguente per addentrarci di 90 km. E la prima sensazione è di meraviglia. Scorre il sale sotto le ruote e pensi a cose che solo questo luogo, fino ad oggi, ci ha mostrato con tanta chiarezza: infinito, orizzonte, vastità. È un luogo che ti fa sentire come un granello di sabbia sulla Terra, che riporta l’essere umano alla sua natura di animale di passaggio sul Pianeta. Ti senti piccolo, ma anche colmo di tanta bellezza. Mai dimenticherò questa sensazione, che è di bellezza pura, ma anche di smarrimento. Vale la pena di estraniarsi dal gruppo, restare da soli con noi stessi, ad ammirare il bianco e a pensare che siamo dove vogliamo essere. E mentre guardo tutto questo nulla, mi commuovo e penso al mio papà, che se ne è andato da poche settimane. Mi piacerebbe saperlo in un luogo altrettanto bello e capace di regalare pace.
Qui i nostri ritmi frenetici rallentano, ingoiati dal bianco, dal nulla, da un luogo che è lo stesso da sempre. Arrivi all’isola di cactus di Incahuasi, parli con Alfredo e la moglie (Alfredo è l’unica persona mai nata sull’isola), scopri che vivono lì, in un posto lontano dal mondo, nel mare bianco di sale. Ci preparano dei caffè buonissimi, sono felici di fare qualche foto, sorridono. Vivono di poco e in fondo non gli manca niente. Ma quando te ne rendi conto sei già lanciato sul sale in sesta piena, perché c’è da fare, c’è da andare. E in fondo va bene così. Però io tutta quella bellezza me la porto dentro e non la mollo più.