Mi chiamo Francesca, ho 33 anni e la prima volta che ho guidato una motocicletta, a Luglio 2020, mi sono detta: con queste due ruote andrò lontano, e da allora ogni difficoltà, incertezza e nuovo insegnamento sono diventate un’avventura. Amo cacciarmi in situazioni che mi spaventano, cambiare pelle spesso, odio i pregiudizi e chi mi dice cosa non posso o posso fare, ho la testa dura e alla fine faccio sempre come dico io, anche se non ne sono capace. Nel 2021, per via delle restrizioni Covid, non ho potuto raggiungere il Centro Asia, ci riproverò il prima possibile, ma, ricordando la poesia di Kavafis, anche se non ho messo le ruote sulla mia destinazione, ho raccolto felicità in abbondanza sulla lunga via del viaggio che porta a Itaca.
Questa è la storia del mio primo viaggio in motocicletta nell’estate 2021, che ho iniziato a sognare e progettare quando avevo solo il foglio rosa, a novembre 2020. Allora la speranza che le restrizioni ai confini sarebbero state meno forti era grande, ma purtroppo mi sarei presto scontrata contro il duro muro della realtà dei paesi centro asiatici ancora duramente colpiti dal Covid.
Sognavo di attraversare l’Iran e di raggiungere le montagne sterminate del Centro Asia, consapevole che sarebbe stato un viaggio molto duro ma era proprio questo ad attrarmi follemente, una nuova sfida per mettermi alla prova, scoprendo angoli di mondi straordinari.
La moto ti spinge dentro al cuore di ciò che stai attraversando e ci sono state delle volte che mi sono chiesta se fosse stata lei a portarmi lungo certe strade o fossi stata io, a volerci mettere alla prova.
Ho scelto di viaggiare con la Yamaha Ténéré 700, estremamente affidabile, confortevole nei lunghi spostamenti e una belva fuori dalle strade asfaltate, nei suoi habitat naturali.
Il viaggio è durato 51 giorni in cui ho percorso 11.000 indimenticabili km partendo dal Friuli-Venezia-Giulia (Italia) per poi proseguire tra Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia, Bulgaria, Turchia, Georgia e ritorno in Italia attraverso l’Anatolia Centrale.
L’essenzialità del bagaglio, che avevo imparato dai precedenti errori in viaggi in solitaria zaino in spalla nel Sud-Est Asiatico e in autostop in Europa, mi è tornata ora più che mai utile. Il sapone solido di marsiglia mi ha permesso di portarmi solo tre cambi di biancheria, consapevole che, anche se fossi stata estremamente stanca, il bucato nel lavandino dell’hotel sarebbe stata l’ultima cosa che avrei fatto ogni paio di giorni prima di addormentarmi.
Dal punto di vista meteorologico, ho incontrato climi bollenti, alternati a passaggi in quota con relativi abbassamenti di temperatura e possibili piogge, soprattutto verso il Caucaso, in Anatolia Centrale e, infine, sulla via del ritorno lungo i Balcani in autunno.
Ho scelto il completo con protezioni Dainese: Giacca Air Tourer Lady e pantaloni Drake Super Air Lady, un completo eccezionalmente ventilato per i climi caldi e con la possibilità fantastica di essere più riparata dal freddo facendoli diventare un pezzo unico con una zip e inserendo nella giacca la membrana antivento. Stivali TCX Lady Tourer che sono diventati una seconda pelle lungo il viaggio e con cui ho trovato inaspettatamente comodo anche camminare. Guanti estivi da donna Yamaha, nel corso del viaggio ho scoperto che non devono mai mancare anche un paio di guanti da moto imbottiti invernali. Completo antipioggia ripiegabile Dainese in due pezzi, un layer prezioso che occupa pochissimo spazio quando ripiegato e riposto nella busta.
Per i climi freddi mi sono portata una maglia termica, uno scaldacollo, un sotto giacca imbottito e una felpa calda ma arrivata a Doğubeyazıt, posto di frontiera turco con l’Iran, ideale per questo tipo di acquisti a prezzi bassissimi, ho dovuto integrare, comprando un pile, un pantalone e calzini termici e un passamontagna.
La scelta del casco integrale AGV AX9, piuttosto che uno modulare, si è rivelata vincente per due motivi essenziali: l’ampia visiera e la sua estrema leggerezza. Inoltre, le due aperture permettono una buona ventilazione all’occorrenza. Per ascoltare musica, parlare al telefono, catturare foto e video in 4K lungo la strada, o registrare note audio, ho montato nel casco un Sena 10C EVO. Avevo anche una GoPro 9 e un’Insta 360 che ho montato dietro sella con un supporto casalingo inventato dal mio compagno, con cui ho viaggiato, lui alla guida della sua Willys del ‘53.
Sulla moto ho installato due bauletti laterali in alluminio originali Yamaha, il paramotore e il para serbatoio. Gomme Scorpion Rally STR Pirelli, ho sostituito la posteriore al termine del viaggio. Quadlock al manubrio con ricarica wireless e il modulo anti-vibrazioni, per evitare cavi volanti e poter agganciare e sganciare il telefono velocemente e usarlo così anche come navigatore. Ho inserito un tappo antipolvere nell’attacco jack del cellulare.
Per la navigazione, ho optato per l’app maps.me, preferibile a google maps soprattutto in Turchia e in Georgia, e utile anche per trovare tracciati fuoristrada con l’opzione bicicletta. Basta scaricare la mappa desiderata quando c’è connessione e poi si può usare offline.
Avendola in casa, ho scelto di portarmi la gomma posteriore di ricambio, al suo interno ci infilavo un borsone Motea con le bretelle a scomparsa, coperto e legato al telaio da un ragno. La gomma era legata sulla sella del passeggero e in parte sbordava sopra il bauletto di destra che conteneva ciò che avrei usato solo in caso di bisogno: pezzi di ricambio della moto, comprese due camere d’aria e vestiti caldi/da pioggia che poi ho sostituito con quelli estivi nella seconda metà del viaggio. Il mio abbigliamento, compresa la borraccia e i supporti video-fotografici erano alloggiati nello zaino e nel bauletto di sinistra che sganciavo ogni sera all’arrivo in hotel.
Ho sempre dormito in hotel, trovando prezzi molto economici, e parte del buffet della colazione diventava il mio pranzo lungo la strada in un Tupperware che lavavo ogni sera sempre col sapone marsiglia.
Per i Paesi attraversati non ho dovuto richiedere visti né serve il carnet de passage, il documento doganale rilasciato dall’Aci per poter importare temporaneamente il proprio mezzo nel paese, che sarebbe stato richiesto in Iran.
Occorrono la patente internazionale, i documenti propri e del mezzo e per il periodo in cui ho viaggiato io anche il certificato vaccinale/tampone (solo in Georgia era richiesto il doppio requisito del certificato vaccinale e del PCR test negativo). In Macedonia, Turchia e Georgia (paesi non coperti dalla mia carta verde) ho stipulato l’assicurazione direttamente in frontiera, rispettivamente per 50, 15 e 50 Euro.
Le sim locali sono acquistabili facilmente fornendo il passaporto in uno dei tantissimi negozi di compagnia telefonica del luogo. In Turchia, per la ricchezza dei siti visitabili, soprattutto in Asia Minore, conviene acquistare la carta Museum pass, che prevede diverse validità temporali.
Mai guidata una moto prima di luglio 2020, patente conseguita a dicembre 2020, a inizio giugno 2021, quando avevo da poco iniziato ad allenarmi con la Ténéré e avrei voluto seguire dei corsi di off-road, mi sono fratturata il piede sinistro. La riabilitazione è stata una corsa contro il tempo, a fine luglio non riuscivo ancora a spingere sul pedale della frizione della macchina ma sono tornata in moto: il terrore iniziale si è sciolto in folle entusiasmo. Era ora di partire.
Tutti i tracciati di fuoristrada che ho fatto nel viaggio sono stati pura danza di improvvisazione, non sapevo nulla ma ho recuperato al mio rientro.
E così l’11 agosto ha inizio il viaggio da Cervignano del Friuli, con il primo pieno vicino al valico di Miren, in Slovenia. L’emozione di mettere le due ruote sull’inizio di questo lungo viaggio ha l’aspetto di un morso allo stomaco e di un cuore che batte a mille, la Ténéré si mangia l’asfalto mentre io mastico paura e tensione, in una danza di improvvisazione sulla strada che diventa la mia scuola di viaggio.
L’uscita dalla Slovenia e l’attraversamento del confine croato passano veloci. Dopo 520 km di autostrada raggiungo in serata la cittadina di Županja, sul fiume Sava, al confine con la Bosnia ed Erzegovina e la Serbia. Dormire a due passi dal confine serbo mi permette il giorno successivo di attraversare la Serbia per entrare in Macedonia, rispettando il limite massimo di 12 ore di transito nel paese concesso a chi non sia in possesso di un certificato vaccinale riconosciuto dal Paese o un tampone.
Attraverso velocemente anche i confini serbo e macedone. All’ingresso in Macedonia, non essendo ricompresa nella mia carta verde, devo fare un’assicurazione per il mezzo, la relativa pratica si fa in un ufficio proprio fuori dal confine. Si pagano 50 euro in contanti e si riceve la carta che serve per farsi restituire il passaporto che l’ufficiale di confine nel frattempo aveva trattenuto. C’è una bella differenza tra le regole serrate che leggevo da casa sui vari siti delle nazioni attraversate e la realtà di come sia attraversarle, il primo ti scoraggia e il secondo ti sorprende che sia così veloce.
Dopo 560 km di autostrada arrivo a Vojnik in Macedonia del Nord, dove dormo. Il giorno seguente raggiungo la cittadina di Staro Nagorichane, dove, parcheggiata la Ténéré, mi perdo nelle sue stradine di campagna punteggiate di abitazioni e mezzi che sembrano abbandonati là da molto tempo. Raggiungo il giardino dove nel mezzo spicca lo splendido monastero di San Giorgio di origine bizantina. Varcato il suo portone, i miei occhi si riempiono di bellezza.
Ricarico la borraccia alla fontana pubblica di acqua fresca che sgorga da dietro il monastero, dopo averci ficcato la testa per il troppo caldo. Qui incontro Susan, una donna del posto dall’età imprecisata perché il suo spirito fresco tradiva le rughe del suo viso. Scopro che parla un inglese perfetto, come se quella esperienza di ragazza alla pari quando aveva 19 anni in Inghilterra fosse l’altro giorno. Aveva una gran voglia di parlare e un sorriso così dolce e aperto. Susan si chiama “come il Sun”, mi dice, come il sole. È stato un bellissimo sole prima di rimettere le due ruote verso il confine bulgaro.
Belle curve tonde alternate a strade impolverate mi portano ad attraversare il piccolo valico di confine con la Bulgaria percorrendo la E-871. Anche qui il calcio italiano diventa subito argomento di conversazione e risate, posso menzionare persino la piccola città dove sono cresciuta: Udine - “Forza Udinese!” seguito da “Ciao Francesca!”, mi saluta l’ufficiale, sorridendo.
Per la prima volta mi chiedono il certificato vaccinale, oltre al solito passaporto e al libretto della moto. Questa notte dormo al fresco a 1200 metri nella valle del fiume Rilska, sotto al massiccio del Rila. Un fresco che penso mi mancherà sulla strada che mi aspetta verso l’infuocata Asia Minore.
Il carburante principale in Bulgaria è la colazione locale a base di panini fritti con la marmellata, la banitsa con formaggio sbriciolato insieme all’eccezionale yogurt bulgaro compatto col miele. La giornata inizia con la visita al Monastero di Rila, Patrimonio dell'Umanità UNESCO, il più grande del paese, un luogo di arte e di cultura affascinante incorniciato da un paesaggio montuoso ricco di foreste e fiumi.
Lasciandosi Rila alle spalle, sulla strada 107 per raggiungere Sofia, è possibile fermarsi e degustare la cucina locale in uno dei ristoranti con tavoli proprio lungo uno dei fiumi della zona. Togliersi gli stivali e immergere i piedi nell’acqua fresca è pura goduria. La Bulgaria è un viaggio alla scoperta dei monasteri ortodossi, alcuni molto frequentati, vedi quello di Rila, e altri gioielli semi nascosti come quello della Trasfigurazione e di Dryanovo.
La Fortezza di Tsarevets (in gran parte ricostruita) a Veliko Tarnovo è una tappa obbligatoria sulla strada (la E85 che prosegue nella 5005) che porta ai piedi di Buzludzha, un disco volante appoggiato a una torre all'altitudine di 1141 metri su cui spunta la stella rossa, il tutto costruito in cemento in perfetto stile architettonico brutale. Nel 1871 fu scelto come sede del primo congresso del Partito Comunista Bulgaro. Abbandonato nel 1989 quando il partito e tutto l’ex blocco sovietico iniziarono a collassare. Ad oggi sotto sorveglianza h24 per permettere i lavori di restauro iniziati qualche anno fa dei suoi interni, ricoperti di mosaici anni ‘70. Mentre mi sento piccola ai piedi di questa architettura brutale immensa e decaduta penso quanto tutto sia temporaneo, non importa quanto sia grandioso, solenne e con forti basi in cemento armato. Ogni ideale, potere, epoca, prima o poi finisce per cambiare e trasformarsi in altro.
Infilo la chiave nel quadro d’accensione e via lungo il rettilineo a tratti ipnotizzante che si snoda davanti a me, le palpebre sembrano incollate dal caldo e dalla stanchezza per essere sulla moto da oltre dieci ore. Il sole che volge al tramonto entra nel mio specchietto laterale sinistro come una pallottola infuocata, alla mia destra spunta la prima indicazione blu per Istanbul, sono a un’ora e mezza dal confine turco. Il paesaggio, nel frattempo, cambia da verdissimo a giallissimo. Raggiungere i luoghi via terra e in sella a una motocicletta è un’emozione straordinaria, il cuore mi batte mentre penso che mi sono già spinta più lontano di quanto immaginassi, e mi chiedo che cosa ancora dovrò lasciare andare perché la danza diventi più leggera sulla strada.
Entro così in Turchia, anche qui come in Macedonia, stipulo l’assicurazione al confine, e dormo a Edirne, dove arrivo a sera inoltrata con il canto di preghiera del Muezzin che scandirà da quel momento in avanti il trascorrere delle giornate in Turchia. Immancabile a Edirne la visita alla Moschea di Solimano, simbolo della città con i suoi quattro minareti alti 71 m, i più alti di tutto il paese.
È tempo di attraversare lo stretto dei Dardanelli sul traghetto (che presto verrà sostituito da un ponte che collegherà le due sponde), districandosi prima tra i forti schiaffi di vento e poi nel caos dell’ingorgo folle di auto, urla in turco, motorini e corriere che si crea nella strada stretta all’ingresso per l’imbarco. Parcheggio la moto per ultima e la tengo ben salda lungo tutto il tragitto, il traghetto lentamente si gira e approda sull’altra sponda della Turchia, raggiungendo Çanakkale. Il profumo di salsedine mi entra nelle narici, sono l’ultima a uscire dopo una sequenza di macchine, le ruote della moto scorrono per la prima volta in un nuovo continente: l’Asia.
Dopo aver visitato Troia, proseguo percorrendo stradine di terra che tagliano le campagne lungo la splendida penisola di Biga. Mi fermo nel sito di Alexandria Troas e, dopo essermi rinfrescata con un bagno lungo la costa, visito l’Apollon Smintheion, per raggiungere infine le colonne del Tempio di Atena sulla cima di Assos, facendomi guidare, lungo la strada asfaltata, dal mare blu all’orizzonte come se fosse una stella polare.
Il giorno successivo visito il sito di Pergamo che sorge su una collina, dove si produsse per la prima volta un supporto di scrittura alternativa al papiro, proveniente dalla concia delle pelli, e che da allora prese il nome di pergamena.
Con la bellezza di Pergamo ancora negli occhi, prendo l’autostrada e vengo risucchiata all’ora di punta in un ingorgo lungo decine di km fuori da Smirne, tra gallerie che sembrano le porte per l’inferno, zaffate di aria bollente dei camion che si affiancano lenti. Consiglio di prendersi per tempo e percorrere in alternativa la circonvallazione esterna. Raggiungo l’hotel a Selçuk e con una doccia lavo via tutto il nero dello smog e la polvere del giorno. Mi piace vedere l’acqua sporca correre giù nello scarico, mi sembra come di liberarmi di un’altra pelle che non mi serve più.
Visitata Efeso, la magnifica capitale dell’antica Asia Minore, imbocco la D550 e poi la D525 e raggiungo un sito decisamente poco frequentato ma di grande bellezza: Magnesia, dove sorge uno degli stadi meglio conservati del mondo classico. Ospitava fino a 30.000 persone e ci si arriva da una stradina sterrata in mezzo ai fichi e agli ulivi. Raggiungo in serata Mileto, imboccando la strada asfaltata che passa per Priene. La biglietteria del sito è ormai chiusa ma l’assenza di cancelli mi regala una visita libera magica, con solo la luna a rischiarare la grande distesa di rovine.
La mattina seguente mi ritrovo a camminare tra le immense colonne del tempio di Apollo a Didime e poi via lungo la D525 e poi la D330 verso Bodrum, la strada perfettamente asfaltata multicorsia regala scorci indimenticabili sul mare e sui rilievi verdissimi. Del Mausoleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo antico, non restano che le rovine del basamento. Una parte delle sue pietre fu utilizzata dai Cavalieri Ospitalieri per costruire nel XV secolo il castello di Bodrum che è visitabile e si trova vicino al porto. Bodrum è una meta molto turistica e i prezzi sono alti.
Da Bodrum per raggiungere la penisola di Datça ci sono due modi, il migliore e il più veloce è imbarcarsi su un traghetto, che va però prenotato per tempo, oppure via terra seguendo la D330, la D550 e infine la D400, ben asfaltata e larga, che, verso la penisola di Datça rende la guida elettrizzante per la bellezza dei panorami e il suo snodarsi in molte curve.
Per raggiungere Knidos, sulla punta della penisola dove si può visitare il bel sito archeologico appoggiato sulla costa, si percorre una strada asfaltata e panoramica tutta curve che nell’ultimo tratto diventa stretta e a picco sul mare. Immancabile la fermata in una delle calette quasi deserte con acqua verde trasparente.
La tappa successiva è la visita a Kaunos, un sito archeologico ben conservato a Dalyan, dove dormo la notte precedente e da cui mi imbarco con la moto raggiungendo in poco tempo l’altra sponda e poi seguendo una strada tutta tornanti. Meritano una visita anche le Tombe dei Re nelle vicine pareti rocciose.
In tarda mattinata riprendo la panoramica strada costiera D400 che sembra, nel suo tratto più ripido, tuffarsi nel golfo di Fethiye, una delle località di mare più affascinanti della costa egea. Spiagge lunghe con un mare turchese da cartolina, incorniciate dai monti della penisola, tra i quali il Babadağ, dalla cui sommità è possibile prendere il volo in uno dei paragliding più spettacolari e unici che esistano. La cima è raggiungibile percorrendo una strada asfaltata con tratti a picco sull’abisso ma sufficientemente larga da far passare due veicoli. Sulla sommità ci sono un ristorante e un panorama straordinario sul golfo, colorato dalle tante vele dei parapendii.
Proseguo lungo la costa mediterranea della Turchia percorrendo la D400, asfaltata e facile da guidare. Curve e tornanti tagliano le alte rupi rocciose che si gettano a picco sul mare turchese. Consiglio di tenersi il costume a portata e concedersi un rigenerante pitstop lungo la strada, dove si alternano lunghe spiagge bianche e calette nascoste semi deserte.
Visito Kekova, una vera gemma, sulla strada per Antalya visito Chimaera e il giorno successivo Perge e poi Aspendos, uno dei teatri meglio conservati dell’antichità, e infine il sito sul mare di Anemurium ad Anamur (qui si può fare il bagno nel mare con alle spalle le rovine della cittadina antica). La raggiungo sempre sulla D400 a picco sul mare, curve a gomito e in certi tratti molto trafficata anche per via dei mezzi pesanti e per il fatto che ad oggi è l’unica strada di collegamento.
Adana è il punto di partenza per raggiungere il giorno successivo il sito, affascinante quanto remoto, di Anavarza. Qui l’arco romano spunta all’improvviso dopo aver zigzagato per una stradina che attraversa un villaggio di case basse, greggi, carretti tirati, trattori e muri di recinzione da cui spuntano reperti romani. Anavarza è ancora quasi del tutto interrata, si cammina tra colonne i cui capitelli affiorano dal terreno. La vista più suggestiva me la regala la sommità del saliente, dove giace una fortezza di epoca medievale sorta laddove una volta c’era l’antica acropoli.
Riprendo la moto al calar del sole e percorro, illuminata solo dai fari della moto, una strada in mezzo a villaggi e campi sterminati, intervallata solo dal passaggio di qualche gregge. Ad Osmaniye imbocco l’autostrada Otyol-52 fino a Gaziantep; anche qui l’alternativa sarebbe stata la D400, ma era tardi e ho preferito l’autostrada.
Visito lo splendido Zeugma Museum, il più grande museo del mosaico al mondo, dove sono conservati i mosaici delle ville romane della cittadina di Zeugma, sulla sponda del fiume Eufrate, che vedrò più tardi. L’incontro con gli occhi intensi della ragazza zingara mosaicata di oltre 2000 anni fa mi accompagnerà per molto tempo; ha tanto da raccontarmi su un passato in cui la città rappresentava un ponte tra il mondo occidentale e quello orientale.
Lungo la D400 raggiungo la città di Sanliurfa, magica e suggestiva, dove si respira un’aria molto diversa dalla Turchia visitata fino a questo momento, e poi Dara, che nasce dalla roccia.
La E90 corre per molti km parallela al muro che divide la Turchia dalla Siria, punteggiato da fortini, torri di vedetta e filo spinato a perdita d’occhio. Raggiungo così Nisibi, dove dormo, per raggiungere Tur Abdin il giorno successivo, una regione montuosa sull’altopiano sud-est della Turchia. Qui resiste una piccola comunità tenace di cristiani siriaci. E insieme a loro, quei monasteri antichissimi, sopravvissuti a distruzioni e abbandoni. Qui le strade che percorro sono fatte di terra e pietra sbriciolata, alternate ad un asfalto per lo più dissestato. È un piacere zigzagare tra le buche con la moto.
Dopo un pernottamento a Batman, proseguo il viaggio lungo la D300, anche questa perfettamente asfaltata e con panorami stupendi e straordinariamente vari, verso il lago più grande della Turchia: il lago salato di Van. Non riesco a smettere di ammirarlo lungo tutta la strada asfaltata panoramica che si snoda al suo fianco, e che mi porta all’imbarco del traghetto per raggiungere la splendida isola di Akdamar, su cui giacciono i resti di un monastero armeno.
La D975 e poi E99 che da Van porta a Doğubayazıt è un nastro perfettamente asfaltato multicorsia che regala dei panorami mozzafiato, è così che mi immagino parte dell’Iran, penso, d’altronde ci sono vicina, me lo ricordano le tante indicazioni stradali gialle.
La strada raggiunge un’altitudine di 2800 metri, il freddo e il vento aumentano, arrivo così ai piedi del Monte Ararat a Doğubayazıt. Faccio giusto in tempo a guardare il sole tramontare, colorando di tinte calde il bellissimo palazzo di Ishak Pasa che domina la vallata.
Il giorno seguente, imposto sull’applicazione Maps.me “Ani” come destinazione e una strada per biciclette per raggiungerla, carico la moto e parto verso l’ignoto.
Le ruote scorrono lungo uno sterrato a tratti impegnativo per centinaia di km. Terra battuta, tratti di sabbia, pietre, pietre smosse, asfalto, varie pendenze, attraverso piccoli villaggi di case basse, greggi infiniti e pastori pazienti. Costeggio il lago Balık gölü, toccando gli oltre 2000 metri di altitudine, e arrivando infine a quel che resta dell’antica e splendida città di Ani, delimitata in parte dal confine naturale che separa la Turchia dall’Armenia.
Il mattino seguente, con il PCR test negativo nello zaino, parto da Kars, verso il più vicino confine con la Georgia che, una volta arrivata, scopro essere chiuso alle persone. In questo periodo le regole ai confini cambiano velocemente e spesso senza avviso online. Il PCR test ha validità 72h per superare la frontiera, non ho alternativa che raggiungere l’unico confine aperto, quello di Sarpi sul Mar Nero, a quasi 400 km, in gran parte tra le montagne. Sono già le 4 di pomeriggio e le nuvole cariche di pioggia mi rincorrono.
Mi copro il più possibile e via tra sferzate di vento sempre più gelide, nebbia che acceca, pioggia e panorami mozzafiato lungo la D010, una delle strade asfaltate più alte del paese. Raggiungo sul passo di montagna Cam Geçidi un'altitudine di 2.640m, in questo punto la nebbia fitta quasi impedisce la vista. A scendere, un’infilzata di curve e tornanti incorniciati da montagne verdissime la rendono una delle strade più scenografiche della Turchia.
Arrivo al confine alle 11 di sera, per scoprire che in quel periodo chiude alle 21. Non resta che parcheggiare la moto nel più vicino hotel di confine, farsi una doccia calda e riprovarci il giorno successivo.
Passo il confine georgiano tra controllo passaporti, pcr test, green pass, libretto di circolazione, patente internazionale, domande “dove vai, quanto resti”, addolciti solo dal caloroso salutarsi nell’idioma familiare con un poliziotto toscano lì in missione europea. Stipulo l’assicurazione georgiana in un ufficio subito dopo la frontiera, dove compro anche una scheda sim con internet.
La destinazione è Mestia, alle pendici del Caucaso. La si raggiunge attraverso una strada che corre prima parallela al mar Nero, divincolandosi tra il traffico cittadino e il traffico di bestiame, e si annoda poi tra curve e tornanti, prima di asfalto poi di cemento. Ma occhio a farsi incantare troppo dalla bellezza circostante, la strada di montagna in vari punti ha ceduto alla forza della natura che erode, che divora ciò che non le appartiene. Senza avviso, le due carreggiate si possono ridurre improvvisamente ad una, perché l’altra è crollata giù, nel torrente che scorre impetuoso a valle dalle pendici del maestoso Caucaso.
Quando la raggiungo, Mestia mi lascia senza fiato per la bellezza delle sue valli, incorniciate dalle alture del Caucaso e punteggiate dalle numerose antiche torri difensive in pietra chiamate Koshkebi. Mi chiedo se mi trovo nella regione dello Svaneti, un tempo terra di sanguinose faide, o nella nostra San Gimignano. Curiosamente scopro che le due cittadine sono gemellate dal 1975.
Da Mestia una strada prima asfaltata, poi cementata e infine sterrata, a strapiombo sul torrente e irregolare in più punti, con anche l’attraversamento di una cascata, porta nella parte superiore della valle dell’Enguri. Sotto il massiccio innevato del monte Shkhara, il più alto della Georgia, davanti a me si apre lo spettacolo di Ushguli, la piccola cittadina delle cento torri. Questo ultimo tratto non è adatto ai principianti, scelgo di non affrontarlo con la moto. Così come ritengo richieda una media-alta esperienza nel fuoristrada raggiungere Tbilisi imboccando la strada fortemente dissestata, fangosa e con varie pendenze, che prosegue oltre Ushguli.
Rientrata in Turchia, parto da Hopa, nella regione del Mar Nero, visitando il castello medievale di Zilkale nella valle di Firtina, sulla catena del Ponto. Dormo vicino alla costa, nel distretto di Sandıktaş, in una delle strutture lungo le stradine che si attorcigliano sui rilievi verdissimi coltivati a thé, e con una vista magnifica sul Mar Nero.
Il giorno seguente punto le ruote verso l’altopiano anatolico, con un’altitudine media di 2000m, a sud della catena dei Monti del Ponto. La destinazione per la sera è Erzincan. Scelgo di arrivarci lungo una strada in parte asfaltata e per dei tratti sterrata che inizia sulla famosa D915. Da questa devio poco prima di Zincirlitaş, girando a destra in direzione Aydintepe. Il percorso, un tornante dopo l’altro, attraversa i rilievi montuosi ricoperti da fitte foreste, per poi proseguire verso l’altopiano brullo e sterminato, punteggiato da piccoli villaggi.
Lasciandomi alle spalle Aydintepe, proseguo in direzione Erzincan improvvisando, imboccando lungo la D052 quelle strade sterrate che da essa si diramano e che attraversano i villaggi. Un’alternanza di colori straordinari, terra rossa, verde, gialla. Per dare qualche riferimento di tracciato, passo per: Bayburt Demirözü Yolu, Güvercindere, Kalecik, Çömlecik, Güzyurdu e infine Erzincan.
Il giorno seguente parto da Erzincan. Anche oggi con la destinazione in mente, improvviso la strada guardando la mappa. Passo per Kemah, Bağıştaş Köyü Yolu, Adatepe, Gümüşçeşme Köyü Yolu, fino a raggiungere l’inizio dello sterrato più spettacolare, adrenalinico e impegnativo del viaggio: la “Kemaliye Taş Yolu”. Una strada sterrata a doppio senso a strapiombo sul fiume Eufrate, senza barriere. Attraverso 22 gallerie scavate nella pietra dagli abitanti del luogo, con tratti in cui la strada è talmente stretta che può passare solo un’auto alla volta. Incrociare un piccolo van carico di gente non è raro. È una strada impegnativa, soprattutto dal punto di vista psicologico, non mi capacito ancora di come sia stata capace di percorrerla senza intoppi.
Nuovo giorno, nuove scoperte. Zoomando sulla mappa si possono trovare strade alternative interessanti che il navigatore non suggerisce, ma che permettono di tagliare ed evitare giri lunghissimi. Che tipo di strade siano però è sempre una sorpresa che scopro quando non posso più tornare indietro. Mi tocca ingoiare la paura di non farcela con la mia moto carichissima e le mie scarse capacità di guidarla fuori strada.
Parto da Arapgir, lungo la D260 devio per Günyüzü, e attraverso Boğazlı, Konakbaşı, Gökağaç, Arguvan Hekimhan Yolu, Güzelyurt. Mentre guido continuo a pensare che non mi sta tutta negli occhi la bellezza dei paesaggi che mi circondano. Arrivo infine per strade di terra e sassolini, neanche segnate sulla mappa, al villaggio di Akbaba nel distretto di Darende (Malatya). Tra questo e il successivo villaggio di Nurkuyusu a 1650m di altitudine, si trova una gola dove scorre il torrente Ayvalıtohma a 1120m sul mare. Per attraversare l’alto dislivello in così poco spazio, percorro un’infilzata di tornanti ripidi e sterrati di terra battuta e ghiaia, prima a scendere poi a salire, che sembrano una giostra ferma da un po’ che mi aspetta, lanciandomi il guanto della sfida.
Il panorama, una volta risaliti, è mozzafiato. Lo sguardo scorre sullo sterminato altopiano anatolico, spettatore indifferente al passaggio dell’uomo. Le nuvole che si muovono veloci sembrano come vestire i suoi rilievi montuosi marrone chiaro con le loro ombre.
C’è qualcosa che accomuna tutti i bambini del mondo, loro corrono, corrono incontro al gioco, incontro alla vita e quando ti vedono passare per le vie strette dei loro villaggi, con la tua moto tutta carica, ti corrono incontro e con un dolcissimo “hello” ti salutano con la manina.
Per me questo viaggio è stato anche un correre con e più veloce delle mie paure, un moltiplicatore di esperienza e di bellezza al prezzo di una grande sfida, che non solo mi ha portata a superare confini fisici ma anche a valicare soglie interiori, divertendomi e scoprendo luoghi di una bellezza da togliere il fiato e persone di una generosità straordinaria.
Il sole che sorge alle mie spalle mentre le due ruote scorrono lungo l’autostrada è lì a ricordarmi che sto tornando a casa. Partendo da Göreme in Cappadocia, attraverso: Istanbul, Edirne, Dragoman (Bulgaria), Serbia, Croazia, valico di Miren (Slovenia), e infine Cervignano del Friuli, casa.