Classe 1976, vado in moto sin da quando avevo 14 anni. Per una vita ho percorso gli asfalti di tutta Italia, con sportive e supersportive, sino a quando, nel 2020, alcuni amici mi hanno fatto vivere l'esperienza di un motorally. Di lì in poi, l’attrazione per i luoghi irraggiungibili con moto stradali è cresciuta esponenzialmente, diventando parte integrante della mia vita. Un connubio perfetto con l’altra mia passione: la montagna in tutte le sue forme e l’esplorazione delle terre più remote del pianeta.
“Attenzione prego, a breve inizierà l’imbarco per il volo Royal Air Maroc con destinazione Casablanca, i passeggeri sono pregati di preparare la carta d’imbarco unitamente al documento d’identità”.
È passato ormai un anno da quella telefonata al mio amico Pietro, in cui esprimevo l’intenzione di realizzare e vivere quel sogno che, sin da bambino, mi accompagnava ogni volta che guardavo le gesta degli eroi che attraversavano in moto distese di nulla per giorni: quel sogno chiamato deserto.
La telefonata è durata quei pochi secondi necessari a sentirmi dire “ho già le valige pronte, con chi andiamo?”. Risposta che non ha tardato un secondo ad arrivare, perché avevo già sentito un coordinatore di Avventure nel Mondo, il quale mi aveva messo in contatto con la guida che si occupa di portare i motociclisti avventurieri a spasso nel deserto marocchino.
“Frodo, senti, io e un mio amico ti confermiamo che, appena a ottobre riprenderanno le attività, saremo i primi a essere dei vostri; noi prenotiamo e ci vediamo a ottobre!” Chi è Frodo? Frodo è La Guida con la G maiuscola. Vi parlerò di lui più avanti, perché di persone così ne esistono, credo, una su un milione.
Torniamo al viaggio. Dobbiamo cambiare aereo e prenderne un secondo con destinazione Ouarzatate, dopo essere partiti da Malpensa ed esserci uniti al resto del gruppo all’aeroporto di Casablanca. Siamo in undici e ben assortiti: ci sono i due fratelli genovesi Antonio e Giorgio, i toscanacci veraci Leonardo e Massimiliano, i due veneti Andrea e Marco, Emanuele da Milano, il romagnolo Giampiero e infine il nostro coordinatore, l’esperto Ruggero. Insomma, sembra una barzelletta, ma presto io e Pietro capiremo quanto siamo stati fortunati a finire in questo gruppo.
Ouarzazate, chiamata anche “la porta del deserto”, è una cittadina che con la sua bella zona storica, fortunatamente tenuta in modo eccellente, e le strutture ormai abbandonate di set cinematografici, ci apre la strada nella Valle Dades, dove il fiume, nel corso dei millenni, ha scavato un vero e proprio canyon. Uno spettacolo di roccia rossastra che assume un colore unico nelle ore che precedono il tramonto.
Arriviamo all’hotel a tarda notte e andiamo subito a dormire, poche ore di sonno e ci dovremo svegliare per cominciare la nostra avventura. Fatta la colazione, a base di tè marocchino alla menta (che ci accompagnerà per tutto il viaggio, a ogni sacrosanta pausa in qualsiasi momento della giornata), mesmen (un pane vagamente simile alle crêpes), miele, marmellata, ci vestiamo come solo i professionisti Dakariani saprebbero fare, per poi dirigerci a piedi verso il quartier generale dell’agenzia. Siamo vestiti di tutto punto tranne uno, il povero Giorgio, al quale hanno perso il bagaglio, che si deve arrabattare con i vari materiali che ognuno di noi ha di scorta da prestare.
Per le vie di Ouarzazate c’è un via vai frenetico: motorini tutti scassati, auto vecchie e malridotte, gente a piedi con carretti e animali… L’aereo ci ha portato, come una macchina del tempo, indietro di almeno cinquant’anni. E poi gli odori tra i vicoli, anzi, i profumi… ma non quello a cui uno Zanichelli darebbe un significato. È quel profumo che ti prende dentro e ti proietta nel sogno, un sogno che sta diventando realtà e che sto iniziando a vivere davvero.
Dodici moto da enduro Beta 390 nuove fiammanti sono qui ad aspettarci insieme a lui, la nostra guida, Frodo. La sua fama lo precede: toscanaccio piccoletto, capelli e barba incolti, pellaccia dura come quella di un cinghiale e un cuore grande. Anzi, sono più che certo che nello scontro diretto avrebbe la meglio e il cinghiale finirebbe sullo spiedo. È sui quarant’anni e attraversa i deserti del mondo da quando ne aveva venti. Insomma, una garanzia.
La strada per allontanarsi da Ouarzazate, purtroppo, ora è tutta asfaltata; sembra di stare su quei drittoni infiniti nei deserti americani che si vedono nei film, quando lo sguardo si perde all’orizzonte. Mentre nella mia testa continuo a chiedermi “ma quando iniziano le dune, ma quando iniziano le dune?”. Ecco, Frodo, all’improvviso, si mette in piedi sulle pedane e devia a destra, fuori dall’asfalto. Mi era stato detto che il Marocco è sassoso, e infatti iniziamo subito una danza maori tra pietre di ogni tipo e dimensione.
Sono emozionato, perché inizio a scorgere i primi segnali di ciò che mi accompagnerà nei prossimi giorni: le classiche montagne brulle e sassose e i sentieri stretti e veloci che ho sempre visto nei documentari di viaggi iniziano a essere la mia realtà. La strada molto rovinata e pietrosa sembra non terminare mai e ci mette a dura prova, il tragitto è moderatamente faticoso ma l’andatura è sorprendentemente spedita; viaggiamo tutti compatti e nemmeno qualche doverosa pausa per scattare una foto scalfisce il buon ritmo. In fondo siamo turisti e non siamo in prova speciale: ci godiamo il paesaggio raro e mozzafiato che il Marocco ci offre.
Non è caldissimo; la temperatura si aggira intorno ai 30 gradi, ma il ritmo, l’emozione e la concentrazione richiesta (bisogna stare davvero attenti a dove mettere le ruote) fanno sì che mi debba fermare a togliere la giacca. Quello dell’abbigliamento da scegliere per questo viaggio in Marocco è stato un argomento difficile, data la nota escursione termica del deserto. Discutendone un po’ con gli altri compagni di viaggio, alla fine, ho scelto di vestirmi con un completo classico da adventouring:
Per rifocillarmi, in più, ho portato con me uno zaino con sacca idrica, integratori salini, gel energetici e barrette varie (tutte scelte che alla fine si sono rivelate perfette).
La bellezza che inizia ad accompagnare i miei occhi è disarmante: villaggi sperduti nel nulla, palmeti, sentieri polverosi che si inerpicano su e giù per montagne rossastre; attraversiamo e sostiamo in un paese dove la vita sembra essersi fermata a mezzo secolo fa. È pieno di venditori di cibo ambulanti, persone sedute ai tavoli vestite come una volta, che bevono tè e mangiano datteri immersi in uno scenario che nemmeno i migliori allestitori di set cinematografici riuscirebbero a replicare.
Le tre jeep guidate da persone locali che ci seguono per l’assistenza, il trasporto di tutti i nostri bagagli e il necessario per l’allestimento dei vari campi sono ferme sotto una palma: ecco dove hanno allestito il nostro tavolo, per il primo ristorante improvvisato della vacanza. Improvvisato, sì, ma a dieci stelle. Tre tavoli da campeggio, sedioline e vettovaglie varie. Ragazzi, che meraviglia! Il cibo è tutto cucinato sul posto con due fornelli da campo ed è squisito. Ci viene servito un po’ di tutto, dall’insalata mista alle sardine in scatola, dalla pastasciutta alla frutta. Tutto delizioso, in quest’ambientazione poi lo è ancor di più.
Due chiacchiere, qualche minuto di pennichella ed è ora di ripartire: destinazione primo campo serale a Foum Zguid. La pista è ancora molto sassosa e delle dune nemmeno l’ombra, ma non ne sto sentendo la mancanza perché mi sembra di stare sulla luna, il paesaggio già così è magico. Non fosse che un branco di dromedari sbucati da dietro un’oasi mi fa tornare in Marocco.
Raggiungiamo il campo. Le piccole tende da due posti e i due tendoni, cucina e “sala da pranzo”, sono già state montate, così come succederà tutte le prossime sere. Troviamo pronto persino un ottimo aperitivo composto da tè, biscotti e popcorn. Trovare tutto pronto ogni volta è sicuramente un lusso, soprattutto pensando ai miei idoli Dakariani che corrono in Malle Moto e che al traguardo di ogni tappa prima di poter riposare devono occuparsi da soli della manutenzione della moto.
Il piatto Re della cucina marocchina, che fa sfoggio di sé nelle sue varianti di pesce, agnello, manzo, pollo e verdure, è il tajine, una portata unica cucinata lenta in una pirofila chiusa di terracotta. Sarà il piatto protagonista delle nostre cene durante tutto il viaggio, assieme alle uova e alle olive. Uova e olive ovunque e in gran quantità, anche a colazione.
Il sole ci regala un tramonto multicolore mentre scende dietro montagne erose dal tempo, illuminando i dromedari che ci guardano incuriositi. La cena è eccellente e le risate, i racconti della giornata e il cielo stracolmo di stelle rendono tutto perfetto. Si allontana ciò che era la nostra quotidianità: il deserto marocchino inizia a rapire la nostra anima.
Si entra nella Valle del Draa: siamo alle porte del Sahara! Sono emozionato, guidiamo in moto lungo quelle stesse piste dove passavano gli eroi che mi hanno spinto a intraprendere questo viaggio; attraversiamo il lago prosciugato Iriki e spazi desertici e sconfinati. Sembriamo gazzelle che corrono sparse nella savana, chi a destra chi a sinistra, guardandosi l’un l’altra. La vera difficoltà è quella di non tenere il polso in posizione perennemente girata, perché il più piccolo sasso nascosto dalla sabbia ci farebbe arrivare veramente sulla Luna.
“Bello tutto, Frodo, ma voglio le dune!”
“Calma, arrivano”
Erg Chigaga, un gigante nel bel mezzo del niente, una zona di dune per noi novellini immense (Frodo ci assicura che sono dune “piccoline”, non più di 100 metri, non oso dunque immaginare cosa sia una duna grande, da 500 o più metri). Inizia a far danzare la sua moto e a disegnare linee come uno sciatore fa fuoripista sulla neve fresca. Sono qui, ci sono anch’io, sto danzando anch’io; è una sensazione che non so ben descrivere, ma spero che, una volta in cielo, si provi la stessa cosa. Rido sotto il casco, poi piango, e poi rido ancora.
Ci fermiamo tutti in fila sopra la cresta di una duna, ci togliamo il casco e torniamo bambini. Ci abbracciamo, ci diamo la mano e ci sediamo a contemplare la vastità che si apre di fronte a noi. Prendo la moto e punto la duna più alta; parcheggio infossando la ruota posteriore sulla cresta e mi siedo ad ammirare, di fianco a lei, quell’oceano infinito che ho sempre sognato. Piango. Forse anche tutti i miei compagni stanno piangendo o hanno pianto di felicità dentro il casco: non siamo più ospiti del viaggio, ne siamo protagonisti.
Riprendiamo a danzare, ma non è così semplice come mi sarei aspettato; non tanto per la consistenza della sabbia, quanto perché bisogna capire dove finisca la duna. È necessario davvero farci l’occhio o si rischia di trovarsi nel vuoto e fare un volo di decine di metri, con conseguenze sicuramente catastrofiche. Per questo, tutti e molto diligentemente, seguiamo le traiettorie della nostra guida fino al nuovo campo.
Dormiamo letteralmente in mezzo al deserto, tra le dune; alcune persone del gruppo decidono di dormire fuori dalla tenda e regalarsi un soffitto di stelle, altro che hotel di lusso. Qui l’umidità è ridotta al minimo, con un buon sacco a pelo si può tranquillamente pernottare senza un tetto sopra la testa.
Un’alba così non l’avevo mai vista: il sole, alzandosi, dona un colore a queste dune e a questo deserto che non potrei ritrovare o riprodurre con nessun pantone. Mi vesto, prendo la moto, scalo ancora la duna più alta e inizio a riempirmi la testa e gli occhi di un momento che non dimenticherò mai. Arrivano anche gli altri e, in silenzio, guardiamo e ci guardiamo esterrefatti e pieni di sensazioni che ci stanno unendo come se fossimo tutti un’unica entità, appena pochi giorni dopo esserci conosciuti.
Ci dirigiamo verso l’oasi di Mhamid e, dopo altre dune, il paesaggio inizia a cambiare, mescolandosi tra formazioni rocciose e lingue di sabbia: è l’ora del fech fech. Il fech fech è una polvere formatasi in seguito alla erosione di terreni argillosi e calcarei, insidiosa per i mezzi a motore in quanto si può facilmente sprofondare. Gas costante, braccia morbide e inizia il divertimento. Sembra di stare lungo un single track interminabile con curve, appoggi, salti e chicane, tutto in mezzo al nulla… che goduria! Vorrei non finisse mai.
Da Sidi Ali proseguiamo per Ramlia e Ouzina; quello che continua a colpirmi davvero è che, dal nulla, si materializzano case, anche se chiamarle tali è spesso un eufemismo; villaggi a ore e ore di distanza dalla civiltà; spesso senz’acqua né luce, ma ci sono i bambini. Si, quei bambini che non hanno nulla, che girano scalzi e con vestiti sporchi e stracciati, che non hanno nemmeno una più piccola parte delle comodità che abbiamo noi, quei bambini che ogni volta che ci sentono arrivare da lontano, li vedi correre all’impazzata tra la terra e i sassi, solo per salutarci o per darci il cinque con la mano o per chiederci di impennare.
Non ne ho deluso nemmeno uno: o rallentavo e, allungando la mano, battevo il cinque, o mi mettevo su una ruota. Ricordo che quando ero piccolo io, chiedevo ai motociclisti lo stesso e alle auto sportive di sgasare, e le volte in cui non lo facevano rimanevo amareggiato. Regalo loro un sorriso in più e qualcosa di cui vantarsi con i coetanei per almeno tutta la giornata.
Arriviamo a Merzouga piuttosto presto; abbiamo il tempo di farci un tè o una Coca Cola in un locale dove suonano musica tradizionale con i tamburi, anche perché dobbiamo aspettare il pomeriggio per addentrarci all’interno del Paradiso. L’erg Chebbi nei pressi di Merzouga è famoso, perché tutti i piloti vengono qui ad allenarsi: le dune sono gigantesche e l’area è vasta ma non troppo. È un parco giochi, questo erg sembra costruito apposta per noi appassionati di fuoristrada; da un capo all’altro non passano troppi chilometri, ce n’è in abbondanza per divertirsi ma immagino che in caso di guai si riesca a raggiungere la civiltà senza troppi problemi.
Ci addentriamo al suo interno e Frodo inizia nuovamente a danzare. Mi sembra di stare sull’ottovolante, la moto sfida la legge di gravità portandomi incredibilmente in cima alla duna affrontando pendenze di sabbia per me inconsuete. Siamo predoni del deserto e, presi dall’entusiasmo e dalla voglia di sperimentare, non mancano cadute e situazioni di fantozziana misura. Le dune, tutt’altro che amichevoli, lasciano il segno ad alcuni, anche sulle costole, ma siamo motociclisti, e stoicamente e sopportando il dolore o forse semplicemente della serie “non mi son fatto niente”, terminiamo tutti il giro e rientriamo al campo da eroi. Qui, i nostri angeli ci fanno trovare tutto pronto come sempre. Accendiamo un fuoco e diventiamo dei veri beduini.
Proseguiamo la nostra avventura nel deserto marocchino in direzione di Tourza: ora il paesaggio cambia spesso; strade tortuose e sassose ci portano su e giù tra montagne aride, passi dove, a volte, incontriamo viaggiatori solitari che hanno davanti a sé giorni e giorni di cammino prima di raggiungere una parvenza di civiltà. Attraversiamo villaggi polverosi di case di fango, insieme a palmeti rigogliosi grazie alla presenza di canaline d’acqua che permettono la sopravvivenza delle coltivazioni agricole, e dove l’unica costruzione moderna e ben tenuta è la moschea.
Inizia la salita verso l’alto Atlante e la nostra guida alza notevolmente il ritmo; ormai ha capito che al nostro gruppo piace dare del gas, così la salita diventa quasi una Pikes Peak. Rido, perché a me, quando si fa della bagarre, viene il sorriso sotto il casco a 65 denti.
Fortunatamente, raggiungiamo tutti incolumi Ikniouen, località posizionata alle falde del grande Jbel Saghro che con i suoi 2595 metri segna il confine orientale; ci fermiamo a prendere il consueto tè alla menta e la Coca Cola, e come sempre veniamo circondati dalla curiosità della gente e dei bambini. Qui, però, noto una popolazione molto differente da quella che ho incontrato fino ad ora: fisionomicamente hanno occhi grandi e molto più vicini tra loro, hanno la pelle abbronzata col colore tipico dell’abbronzatura di montagna e sono molto meno invadenti, anzi, non lo sono per niente. Mi ricordano un po’ le popolazioni nepalesi che ho avuto la fortuna di conoscere.
Il nostro viaggio in Marocco sta per giungere al termine: puntiamo la Valle del Dades percorrendo su asfalto forse una delle più belle strade al mondo, dove paesi si arrampicano sui pendii perfettamente mimetizzati con il colore marrone della terra, che contrasta col rigoglioso verde e l’azzurro dell’acqua alle loro pendici. Passaggio nella Valle delle Rose, da dove si estrae il “famoso nettare”, e poi dritti ancora su asfalto verso il punto di partenza Ouarzazate.
Sono passati otto giorni. Otto giorni in cui i miei occhi, il mio cuore, la mia mente, si sono riempiti di emozioni, colori, immagini, ricordi che rimarranno indelebili. La fortuna vera è stata, però, nell’aver potuto condividere tutto ciò con un gruppo affiatato e variegato, che si è legato indissolubilmente e che ha reso il viaggio una vera avventura. Un viaggio, d’altronde, non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. Comincia molto prima e non finisce mai, il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, malattia nota ma ancora priva di cura. Forse, per me, questa malattia ora si chiama mal d’Africa.